Lettera pastorale del Vescovo Francesco

Servire la vita dove la vita accade

Care sorelle e fratelli,

nei mesi scorsi abbiamo condiviso un’esperienza unica, contrassegnata da tanto dolore: sappiamo che il pericolo del contagio è ancora presente e siamo consapevoli di quello che può rappresentare. Nello stesso tempo, avvertiamo che la morsa si è allentata e ci interroghiamo su ciò che ci attende. Espressioni enfatiche come “niente sarà come prima” o “andrà tutto bene” stanno perdendo forza e lasciano spazio a sentimenti diversi, come diverse sono state le vicende che comunità e famiglie hanno vissuto.

Il vissuto da non sprecare: un enorme patrimonio

“Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi

Senza la pretesa di essere esaustivo, metto in fila una serie di sentimenti che abbiamo sperimentato in questo tempo: siamo passati dalla noncuranza allo sgomento e poi alla paura, alla fatica, al dolore, allo strazio; abbiamo avvertito ammirazione per medici e infermieri e tutti coloro che si sono adoperati per curare, salvare, sostenere, rassicurare; ci siamo sentiti responsabili nei confronti dei più piccoli e dei più deboli: la prudenza e il rispetto delle disposizioni si sono fatti sempre più ampi e condivisi.

Non pochi hanno fortemente avvertito la solitudine e alcuni addirittura l’abbandono. Siamo rimasti sconcertati nel momento in cui i gesti abituali e anche quelli della fede, sono scomparsi. Ci siamo resi conto di una vulnerabilità, di una fragilità e debolezza che avevamo dimenticato. Abbiamo riconosciuto in molti un sentimento di fede che non poteva esser solo riportato alla paura o all’attesa di un miracolo.

Con la diminuzione della violenza del contagio sono emersi altri sentimenti: lo smarrimento, la rassegnazione, la depressione, la rabbia, la rimozione, ma anche la determinazione, la speranza, l’impegno nel ricostruire le condizioni fondamentali della vita sociale.

Su tutti ha dominato un sentimento di solidarietà che ancora una volta ci ha stupito, allargato il cuore: un sentimento che non vorremmo veder svanire man mano diminuisce il pericolo. Mentre scrivo, il sentimento che avverto diffuso è quello della “sospensione”: una miscela di attesa, speranza, determinazione, incertezza, confusione, contraddizioni, tensioni, paure …

L’oscurità, la solitudine, l’abbandono, il dolore, la sofferenza, la malattia e la morte, il senso di impotenza, lo strazio, la disperazione, hanno interrogato molti su Dio e, come i discepoli sulla barca evocata dal Papa, anche noi abbiamo avvertito l’intensità della drammatica domanda posta a Gesù che sulla barca squassata dalla tempesta, dorme: “Non ti importa che siamo perduti?”

Ora avvertiamo la necessità di individuare luci e segnali; di non dividerci, di condividere la “meta”; di mettere a frutto l’esperienza accumulata, di rallentare, di verificare la solidità della terra su cui si posa il piede, di non perdere la calma, di pregare… di non sprecare il patrimonio di dolore e di amore che abbiamo accumulato. Abbiamo bisogno di esercitare la pazienza, come virtù. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

La pandemia non è una parentesi, che prima o poi si chiuderà. Oltre, e non dopo, la fase 1,2,3 … risuona un’istanza di cambiamento, di conversione: dalla prevalenza dell’individualismo ad un rinnovato senso di comunità.

La pandemia non è una parentesi per noi cristiani, che, mai come oggi, abbiamo vissuto insieme a tutta l’umanità, il mistero della Pasqua di morte e risurrezione. La Risurrezione è l’annuncio che le cose possono cambiare. Lasciamo che sia la Pasqua, che non conosce frontiere, a condurci creativamente nei luoghi dove la speranza e la vita stanno combattendo.

 

Servire la vita dove la vita accade

Nel momento in cui la violenza dell’uragano si è scatenata e le misure per il contenimento sono diventate stringenti, la comunità cristiana è stata travolta: in un attimo è sparita. Chiese aperte, ma vuote; celebrazioni e sacramenti scomparsi; oratori chiusi; prossimità a famiglie, malati, poveri, impossibile.

L’uragano non ha demolito chiese, ma ci ha rubato il “corpo”: noi siamo la religione del “corpo”. Il Dio che ci meraviglia e scandalizza ha fatto del corpo il sigillo della sua umanità. Non più segni, non più incontri, non più luoghi comuni, non più i gesti di una prossimità personale, che caratterizza la testimonianza dell’amore e della solidarietà. Questo sconquasso non è durato molto, ma in molti se ne sono accorti: chi con un di più di dolore e chi con giudizio implacabile su una Chiesa inutile.

Poi, nei modi più diversi, siamo usciti di nuovo: non si è trattato di una riscossa, una riconquista del terreno perduto, di una volontà di esserci per non esser tagliati fuori. Non si è trattato di un esercizio di fantasia, di creatività e neppure di un’iniezione di adrenalina, capace di rimettere in moto il “corpo”.

Non accampo alcuna pretesa, ma ritengo d’aver avvertito il soffio dello Spirito, dello Spirito Santo. In un momento in cui ciò di cui avevamo maggiormente bisogno era l’ossigeno e l’aria per coloro che stavano soffocando, il vento dello Spirito ha percorso le comunità e i cuori di fedeli e di pastori. Lo Spirito è vitale e dà vita: così è successo nelle nostre comunità. Impedite, private del “corpo”, si sono lasciate pervadere dallo Spirito.

Ero partito, nei primi tempi della pandemia, leggendo i giorni della comunità cristiana nel segno dell’esilio dell’antico Israele: senza più casa, tempio, altare, sacerdozio. Poi col crescere del turbine, del suo passaggio devastante, del dolore e della morte, mi sono reso conto che stavamo veramente vivendo quella Pasqua, che non potevamo celebrare come di consuetudine. Il rito era ridotto all’essenziale ma la vita era contrassegnata, come non mai, in ciascuno e in tutti dal mistero della Pasqua: morte e vita in duello, come dice l’antica preghiera.

E finalmente il soffio dello Spirito, il soffio del Risorto. Non mi soffermo sulle incalcolabili proposte di ascolto, preghiera e carità, ma sul fatto che le donne e gli uomini della nostra terra hanno avvertito di essere comunità, che qualcuno c’era, che distanziati eravamo prossimi l’uno all’altro. Non dimenticherò la testimonianza di un’anziana signora che ha tenuto a dirmi e scrivermi: nella vicinanza della mia parrocchia e dei miei sacerdoti ho riconosciuto la vicinanza di Dio.

E’ il Soffio che ho continuato ad avvertire nelle condivisioni che le piattaforme digitali ci hanno consentito: le “finestrelle” alle quali ci siamo affacciati nei mesi scorsi, inizialmente timorosi, e poi sempre più coinvolti. Non siamo stati “alla finestra”, ma, attraverso la finestra siamo stati in ascolto gli uni degli altri. Gli incontri non sono stati un proforma: quasi delle “passerelle” in cui ognuno appariva per qualche istante. Ciò che stavamo vivendo e la fede con la quale stavamo vivendo il dramma di tutti, ci univa e apriva il cuore e non solo la mente ad una comprensione spirituale, perché ispirata dello Spirito di Dio. Così è stato dei dialoghi con i sacerdoti, con i religiosi, con i laici. Se, avvertiamo la necessità dell’incontro non mediato da uno schermo, dobbiamo riconoscere che la condivisione sperimentata è stata autentica e percorsa dallo Spirito.

Il frutto di questo modo di stare insieme, del discernimento inevitabile, è stata l’emersione di un convincimento avvertito non solo come vero, ma come necessario e prospettico.

Il Signore ci ha chiesto e ci chiede di servire la vita dove la vita accade, come ha fatto Lui.

 

E’ il Soffio dello Spirito che il mondo intero ha riconosciuto nelle parole e nei gesti di Papa Francesco, che ha rappresentato agli occhi di tutti l’inesauribile speranza che scaturisce dal Vangelo e dal Signore Crocifisso e Risorto. Desidero consegnarvi alcune della parole che sono risuonate in quei giorni e che mi hanno confermato nell’intuizione spirituale, evangelica e pastorale di servire la vita, dove la vita accade.

Nessuno potrà dimenticare l’icona del Papa sotto la pioggia nella piazza deserta, ma non vogliamo dimenticare neppure le sue parole, ispirate al Vangelo della tempesta sul lago e al gesto di Gesù. Ad un certo punto, il Papa ha parlato del “giudizio”: “E’ il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”. E’ il tempo dunque delle scelte, è il tempo della conversione.

Ha parlato, come l’Apostolo, di armi: la preghiera e la carità. La preghiera, non solo sperimentata abbondantemente in quei giorni, ma soprattutto sperimentata come espressione di una consegna, di un affidamento. La carità, riconosciuta non solo nei gesti eroici, ma nella dedizione di coloro che sono rimasti e rimangono “invisibili”.

 

Proprio in quei giorni, il Santo Padre ha consegnato un Messaggio che probabilmente pochi hanno letto, perché indirizzato specificamente a coloro che promuovono le “opere missionarie” della Chiesa. In realtà, questo messaggio, rappresenta una sintesi e un rilancio della prospettiva che Papa Francesco ha indicato all’inizio del suo pontificato, nella Lettera “Evangelii Gaudium” e che ritengo particolarmente significativa per il cammino che ci attende. Riprendo alcune sottolineature.

  • La gioia del Vangelo è frutto dello Spirito Santo: si tratta di un dono, di una grazia da invocare. E’ questa gioia originale che contraddistingue la testimonianza cristiana e la missione secondo il Vangelo: una missione che è prima e soprattutto opera dello Spirito Santo. La preghiera è “espressione” di questo convincimento.
  • La missione non è una difesa o una conquista di spazi o di persone, ma si propone con la forza attraente del Vangelo: non si tratta di attirare a sé o alla Chiesa. Si tratta di attrarre a Cristo, consapevoli che in realtà: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Si tratta di favorire le condizioni per un’attrazione che non è opera nostra. Quali sono? Per ora ne abbiamo individuate due: la gioia dello Spirito e la preghiera.

Se si segue Gesù felici di essere attratti da lui, gli altri se ne accorgono. E possono stupirsene. La gioia che traspare in coloro che sono attirati da Cristo e dal suo Spirito è ciò che può rendere feconda ogni iniziativa missionaria.

  • L’esperienza della Grazia è capace di suscitare la gratitudine: l’esercizio della memoria e la pratica del memoriale di ciò che Dio ha fatto per noi, sono capaci di suscitare stupore e diventano condizioni per alimentare il sentimento della gratitudine. Non dobbiamo stupire, ma stupirci: testimoniamo il nostro stupore! Dallo stupore e dalla gratitudine, scaturirà la gratuità della missione: non si tratta di costringere e nemmeno di sentirsi costretti. Il processo generato dalla grazia, ha i connotati della libertà.

Solo nella libertà della gratitudine si conosce veramente il Signore. Mentre non serve a niente e soprattutto non è appropriato insistere nel presentare la missione e l’annuncio del Vangelo come se fossero un dovere vincolante, una specie di “obbligo contrattuale” dei battezzati.

  • Alla gratitudine si accompagna l’umiltà. E’ espressione della consapevolezza e della meraviglia suscitate dal dono di Dio. Al contrario, prendono piede la presunzione, l’orgoglio e la superbia, che si manifestano in molti modi.

Mai si può pensare di servire la missione della Chiesa esercitando arroganza come singoli e attraverso gli apparati, con la superbia di chi snatura anche il dono dei sacramenti e le parole più autentiche della fede cristiana come un bottino che ci si è meritato.

  • Insieme all’umiltà vi è la misericordia che attende con pazienza, che accompagna il cammino, anche quando è incerto e indisponente, che non lo appesantisce, rendendo faticoso l’incontro con Cristo; che apprezza il piccolo passo e adotta uno sguardo di realtà, tutt’altro che rassegnato.

La Chiesa non è una dogana, e chi in qualsiasi modo partecipa alla missione della Chiesa è chiamato a non aggiungere pesi inutili sulle vite già affaticate delle persone, a non imporre cammini di formazione sofisticati e affannosi per godere di ciò che il Signore dona con facilità. Non mettere ostacoli al desiderio di Gesù, che prega per ognuno di noi e vuole guarire tutti, salvare tutti.

  • La misericordia diventa prossimità. Si tratta di annunciare, testimoniare, incarnare, servire il Vangelo nei luoghi e nei tempi dove si vive. Il passato recente ci consegna un numero considerevole di istituzioni, strutture, enti, opere assistenziali ed educative, quali segni incarnati della risposta al Vangelo. Nelle attuali veloci trasformazioni, e in qualche caso a seguito di scandali, corriamo il rischio di perdere questa presenza capillare, questa prossimità salutare, capace di iscrivere nel mondo il segno dell’amore che salva.

L’impegno, dunque, non consiste principalmente nel moltiplicare azioni o programmi di promozione e assistenza; lo Spirito non accende un eccesso di attivismo, ma un’attenzione rivolta al fratello, «considerandolo come un’unica cosa con se stesso». Non aggiungendo qualche gesto di attenzione, ma ripensando insieme, se occorre, i nostri stessi modelli dell’abitare, del trascorrere il tempo libero, del festeggiare, del condividere.

Quando è amato, il povero «è considerato di grande valore»; questo differenzia l’opzione per i poveri da qualunque strumentalizzazione personale o politica, così come da un’attenzione sporadica e marginale, per tacitare la coscienza.

Succede che tante iniziative e organismi legati alla Chiesa, invece di lasciar trasparire l’operare dello Spirito Santo, finiscono per attestare solo la propria autoreferenzialità. Tanti apparati ecclesiastici, ad ogni livello, sembrano risucchiati dall’ossessione di promuovere sé stessi e le proprie iniziative. Come se fosse quello l’obiettivo e l’orizzonte della loro missione”.

Ho desiderato condividere con voi questo percorso, che ritengo di autentico discernimento spirituale, per consegnare a ciascuno e a tutte le nostre comunità questo mandato: “Serviamo la vita, dove la vita accade!”.

L’icona evangelica

Non è semplice individuare una pagina evangelica, un’icona per rappresentare e soprattutto per lasciarci ispirare in ordine al mandato che ci siamo proposti. La difficoltà consiste nel fatto che tutto il Vangelo e le testimonianze apostoliche narrano di questa scelta. Ho individuato la breve testimonianza evangelica della risurrezione del figlio della vedova di Nain, perchè mi sembra rappresenti in maniera essenziale il servizio evangelico alla vita dell’uomo.

In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlzati!”. Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”, e: “Dio ha visitato il suo popolo”. Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante. (Lc 7,11-17)

La risonanza più pertinente alle nostre considerazioni è rappresentata dal contesto di questo segno di risurrezione. E’ un segno che esprime la tenerezza e la grande compassione di Gesù verso una donna che ha perso il marito ed ora il suo unico figlio. Nello stesso tempo è un segno tutto illuminato dalla sua Risurrezione e dalla coscienza dei discepoli che il potere della morte non sarà più definitivo e assoluto.

Ritornano alcuni passaggi caratteristici dello stile di Gesù: il suo sguardo, il sentimento della compassione, i gesti espressivi quanto le parole, le provocazione che gesti e parole comunicano, con l’intenzione di coinvolgere ed soprattutto di evocare la fede dei suoi interlocutori. Certamente il gesto di toccare la bara e l’espressione rivolta alla madre, sono provocazioni intense per coloro che stanno assistendo a quell’incontro e per il lettore del Vangelo.

La parola di Gesù non è magica, come il suo toccare l’intoccabile. Lui è una parola incarnata. Toccare è necessario: è il segno concreto della vicinanza.

Quel tocco penetra nella realtà di sconforto e disperazione. È il tocco del Divino, che passa anche attraverso l’autentico amore umano e apre spazi impensabili di libertà, dignità, speranza, vita nuova e piena. L’efficacia di questo gesto di Gesù è incalcolabile. Esso ci ricorda che anche un segno di vicinanza, semplice ma concreto, può suscitare forze di risurrezione”.

La misericordia, sia in Gesù sia in noi, è un cammino che parte dal cuore per arrivare alle mani.

Tutto è preparato perché risuoni la parola della vita, la parola che dà vita: “Ragazzo, dico a te, àlzati!”. Alzati: un comando che vince la morte e chiama alla vita. Rialzarsi non è una scelta, una fatica, un coraggio, ma è prima di tutto un dono, un dono interiore. Questa parola risuona dentro di noi, a partire soprattutto da chi la pronuncia o l’ha pronunciata per noi. Rialzarsi non è solo un atto di volontà, ma un atto di fede.

E finalmente il ragazzo viene restituito alla madre: si tratta di una rinascita non dalla carne, ma dalla grazia. Servire la Vita, dove la vita accade è per Gesù e i suoi discepoli il dono di una vita nuova. Il testo ricorda che il ragazzo si mise a parlare. Il Cardinale Martini si domandava cosa avesse detto e concludeva immaginando che avesse pronunciato la parola della vita nuova: “Grazie”.

Ho sobriamente ricordato alcuni passaggi della testimonianza evangelica, per ritornare al contesto dell’evento. La parola più importante per noi, alla luce del mandato “Servire la vita dove la vita accade” è “occasionalità”.

Un’occasionalità paradossalmente cercata e voluta, a partire dalla scelta di Gesù di percorrere le strade degli uomini, le strade della vita. Non crea una scuola, ha una casa non sua per istruire coloro che ha scelto, ma il suo insegnamento, i suoi gesti succedono lungo la via. La via è l’immagine dell’incontro non previsto, ma cercato; l’incontro con tutti e nelle situazioni più diverse. E’ in quegli incontri, di cui il Vangelo trabocca, che Gesù serve la Vita proprio nel suo accadere.

Il Vangelo comincia con l’immagine di due cortei che occasionalmente si incrociano: quell’incrocio diventa un incontro che trasforma la vita, che dà la Vita. Anche noi mettiamoci sulla via.

 

Alcuni criteri

Nulla possiamo dare per scontato

Nel momento in cui siamo stati travolti dalla violenza dell’uragano del contagio, ci siamo resi conto in maniera evidentissima che nulla può essere dato per scontato, neppure i gesti più minuscoli e quotidiani. D’altra parte, siamo altrettanto consapevoli che il rischio di un’inerzia strutturale, della semplice ripetizione di ciò cui siamo abituati è sempre in agguato, anche e, in certo modo, soprattutto nell’azione pastorale. E’ necessario liberare le nostre strutture dal peso di un futuro che abbiamo già scritto, per aprirle all’ascolto delle parole e della vita dei nostri contemporanei.

Scrive il Cardinal Tolentino Mendoça: “Ci addolora tanto che oggi la prossimità sembri quasi sospesa, sia vietata, impossibile. Ma può essere anche un’opportunità per rivedere in profondità il senso di queste parole. Perché il nostro vero problema è la vita sonnambula che conduciamo, la pura meccanicità della nostra esistenza. Per esempio: diamo per scontata la prossimità, invece è sempre una costruzione, è sempre una scoperta. La famiglia, la vita, il dono di sé, la fragilità … Penso che oggi sia importante correre il rischio di dare un senso nuovo a vecchie parole. Per esempio la parola “ascolto”. Oggi ne abbiamo un gran bisogno, ma deve essere un ascolto in profondità, senza paure, senza pregiudizi”.

La cura dello stile

Nel tempo della rarefazione delle attività e delle iniziative, abbiamo riconosciuto in maniera più evidente che non si tratta soltanto di fare, ma di come fare. Le nostre proposte esigono di essere caratterizzate da uno stile che le renda riconoscibili come frutto della fede evangelica e dell’azione dello Spirito.

Siamo diventati più consapevoli che, pur nella varietà delle personalità, dei carismi e delle storie di coloro che formano e guidano la comunità cristiana, è indispensabile assumere uno stile nell’azione pastorale che non la contraddica proprio mentre si sta attuando.

Tra i diversi tratti di questo stile, vorrei sottolineare: l’essenzialità e la sobrietà; la gioia frutto della fede; la cura delle relazioni, con particolare attenzione alle persone più provate e svantaggiate; la flessibilità e gradualità necessarie in un tempo di cambiamento e di incertezza.

La necessaria conversione

La pandemia non è un castigo, ma sicuramente un appello alla conversione. E, in questo caso, l’appello è veramente globale: non solo perché investe tutti, ma perché investe la vita nel suo insieme e in tutte le sue dimensioni. La conversione non è semplicemente un cambiamento e tanto meno un aggiustamento: si tratta di riorientare l’esistenza personale, ecclesiale e sociale in direzione di Cristo, secondo le linee tratteggiate dal Vangelo, assecondando l’azione dello Spirito Santo.

L’imperativo della “ripartenza” ha sicuramente una sensatezza e una forza morale non indifferente, ma non può ignorare gli interrogativi sulla direzione, sui criteri, sui fondamenti.

L’emergenza sanitaria ha innescato un’emergenza economica e sociale non indifferente; anche dal punto di vista pastorale siamo chiamati a farci interpellare dalle istanze evangeliche della conversione, consapevoli che non esiste conversione pastorale separata da quella personale. Non basta cambiare le cose, dobbiamo lasciarci cambiare il cuore.

Dal punto di vista pastorale, la conversione richiesta assume le caratteristiche della missione.

Perché il cammino della Parola continui, occorre che nelle comunità cristiane si attui una decisa scelta missionaria, «capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione.

Servire la vita dove la vita accade

Non si tratta di una formula e neppure di una novità. Si tratta di un criterio che vogliamo assumere come decisivo per la nostra testimonianza personale, ecclesiale, pastorale.

L’istanza missionaria che investe la Chiesa intera, la diocesi ed ogni singola parrocchia e comunità, trova in questa espressione la sua dimensione programmatica.

Oggi, il territorio non è più solo uno spazio geografico delimitato, ma il contesto dove ognuno esprime la propria vita fatta di relazioni, di servizio reciproco e di tradizioni antiche. È in questo “territorio esistenziale” che si gioca tutta la sfida della Chiesa in mezzo alla comunità.

Mi convinco sempre più che il servizio della Chiesa è quello di alimentare la speranza delle donne e degli uomini a partire dalla sorgente pasquale, raggiungendo le esperienze umane fondamentali: nascere, morire, amare e lavorare, gioire e soffrire, educare e scegliere. Come mi ha scritto il Pastore della Comunità Valdese di Bergamo, Winfrid Pfannkuche: “Non viviamo, e di questo siamo certi, nel “tempo del coronavirus”, ma nel tempo del Cristo, del suo Spirito potente di amore, della preghiera e della predicazione del regno di Dio”.

Il servizio della vita è quello del Cristo, è la sua missione. Lui stesso è la Vita. Servire la Vita significa dunque servire il Signore che dona la sua Vita dove la vita accade. “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di Lui”. (1Gv 4,9).

Servire la vita significa ascoltarla nelle parole e nei silenzi delle persone umane e vedere ciò che c’è, nella speranza di ciò che può ancora venire; significa privilegiare la concretezza dell’incarnazione: riconoscere dunque i bisogni anche meno manifesti; immaginare azioni di risposta adeguate e non ossessionate dall’efficienza; alimentare una disposizione accogliente delle varie situazioni; verificare la sensatezza delle azioni intraprese, alla luce del Vangelo.

Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada.

Servire la vita riconoscendone la dinamica di frammento e di unità, di unicità e di coralità, consapevoli della dispersione e testimoni di un umanesimo integrale, che non escluda nessun uomo e abbracci tutto dell’uomo; un umanesimo inevitabilmente “trascendente”. L’uomo proviene dall’intimo di Dio», scriveva nel II secolo l’anonimo autore dello Scritto a Diogneto, perciò – potremmo parafrasare – è «impastato di Lui»: è la peculiare consapevolezza dell’umanesimo cristiano.

Il tempo è superiore allo spazio

Abbiamo sperimentato che cosa significhi la dilatazione del tempo e la contrazione degli spazi: gli spazi della vita familiare, scolastica, lavorativa, sociale e anche ecclesiale. Abbiamo sperimentato la paura di perdere terreno, di veder ristretti i nostri ambiti di influenza e di presenza.

Nello stesso tempo abbiamo visto dilatarsi il tempo come non mai: nella trepidazione nell’angoscia, avevamo tempo, avevamo a disposizione tanto tempo. Cosa rappresenta un’esperienza così? In Evangelii Gaudium Papa Francesco illustra questo principio. (222 – 225)

Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. … Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. … Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci… Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga.

Si tratta di dare forma al tempo e non subirla: come fare? Alimentandone il senso, gustando e non consumando il tempo, connotandolo di gratuità, rallentando il passo, liberandolo dalla gabbia della “programmazione”.

Il segreto è vivere i nostri giorni, lasciandoli plasmare dalla speranza. In questa prospettiva il tempo dedicato alla preghiera e all’amore donato, è capace di dar forma nuova al tempo personale, familiare, ecclesiale, pastorale e anche lavorativo.

Preghiera e carità

Nei giorni della pandemia e del mio pellegrinaggio nei luoghi dove la vita accadeva, è cresciuta sempre più l’evidenza che preghiera e carità erano le esperienze e le modalità decisive e originali con cui la comunità cristiana condivideva la prova di tutti.

Sollecitato a formulare voti e a promettere erezioni di santuari, ho avvertito che l’edificazione di un santuario stava già avvenendo raccogliendo l’infinità di preghiere e di gesti d’amore gratuito e generoso che venivano compiuti. Seppur non materiale, questo “santuario” è stato edificato e non vorremo lasciarlo nell’abbandono.

Preghiera e carità indissolubili: questo è un ulteriore criterio ben rappresentato dalle mani che, giunte per la preghiera, si aprono come un fiore per la carità. Le variazioni di queste due esperienze sono veramente tante ed abbracciano il mondo della Parola, della Liturgia, della Catechesi, della Vocazione, della Missione e dei molteplici territori dell’esistenza umana.

La comunione eucaristica, spirituale, fraterna

Insieme all’unità di preghiera e carità, è emerso in modo chiaro il rapporto indissolubile tra comunione eucaristica, spirituale, fraterna. Nei giorni della forzata astensione eucaristica, molti hanno percepito il desiderio di quel pane. La consapevolezza diffusa e sorprendente, tranne in alcuni, è stata di quanto fossero inseparabili tre dimensioni. In una delle ultime eucaristie domenicali tramesse in TV, a cui ancora non si poteva partecipare, cercavo di illustrarle.

Se noi isoliamo la comunione eucaristica dall’Eucaristia cominciamo a tradire la comunione. Durante queste celebrazioni proponiamo la “comunione spirituale”. Quando dico “comunione spirituale” non intendo semplicemente quelle parole di fede con le quali noi apriamo il cuore al Signore e alla sua presenza, ma dico “comunione nello Spirito”, nello Spirito Santo, quello Spirito di cui Gesù ci ha parlato nel Vangelo, che ci ha promesso. “Lo Spirito Santo che è in voi”, ci ha detto. La comunione eucaristica e la comunione nello Spirito non possono essere separate dalla comunione fraterna. Penso a quella comunione fraterna che in maniera ancora un po’ limitata vivremo durante le prossime celebrazioni, ma anche, e in modo particolare, a quella che abbiamo vissuto in questi mesi nelle famiglie, nei confronti dei malati, nei confronti dei più deboli, nei confronti di chi aveva bisogno.

Alcune scelte per quest’anno

A livello parrocchiale

  • La formulazione dei calendari va particolarmente curata e condivisa all’insegna dei criteri indicati, con particolare attenzione ad una seria verifica delle motivazioni che sostengono le proposte e ad evitare i pericoli dell’estemporaneità o quelli di una programmazione che paralizza le dinamiche che abbiamo evocato. Appaia evidente che è l’anno liturgico la forma del tempo in cui si collocano le nostre proposte.
  • La gestione dei beni mobili e immobili, strumentali, artistici e commerciali, va riordinata e riorganizzata alla luce dei criteri indicati. Soltanto la chiarezza e l’organizzazione ordinata di beni, opere e strumenti, permette di fare scelte che non contraddicano nei fatti, i criteri a cui vogliamo ispirarci. Particolarmente, va tenuta sotto osservazione la logica sterile che spinge ad impiegare energie e risorse semplicemente per mantenere l’esistente, a prescindere dalle finalità che si propone. Siamo consapevoli che questa linea creerà situazioni non semplici da affrontare, sia per quanto riguarda le strutture e le opere, ma anche per quanto riguarda le persone che vi sono impiegate.
  • La delineazione e l’organizzazione dei percorsi catechistici avvenga alla luce delle disposizioni in atto e faccia tesoro delle esperienze maturate sia nel periodo del lockdown, sia durante le esperienze estive. Per quanto riguarda l’iniziazione cristiana dei fanciulli e la celebrazione dei sacramenti che l’accompagnano, si eviti chiaramente l’impressione di una pratica da sbrigare, aprendosi a una riflessione, ancor prima che a una pratica, circa le condizioni che alimentano la sensatezza della proposta. Non possiamo dare per scontato che tutte le famiglie, nella varietà delle loro fisionomie, siano disponibili ad assumere quella soggettività pastorale, catechistica ed educativa che non poche hanno espresso nei mesi della pandemia, ma favoriamo convintamente e con grande apertura di cuore questa soggettività.
  • Le prassi della carità “organizzata” vanno ripensate con una certa urgenza, per non ricadere in forme assistenzialistiche di cui abbiamo da tempo evidenziato il limite. Con discrezione e nello stesso tempo con convinzione ripropongo la lettera “Donne e uomini capaci di carità” nella quale indicavo piste da percorrere e criteri da adottare.

La carità non è soltanto risposta ad un bisogno, ma soprattutto il modo di vivere di coloro che si riconoscono come cristiani. La testimonianza più necessaria, in questo momento, è quella di una fraternità che si esprima in tante declinazioni e riesca a manifestare l’originalità della fede evangelica, per la quale, la relazione umana, personale, concreta, precede ogni organizzazione, pur necessaria.

Il Fondo “Ricominciamo Insieme”, i “Centri di ascolto Caritas”, le diverse iniziative di solidarietà, lo stesso reperimento di risorse, l’esperienza del volontariato, l’attenzione alle nuove povertà e all’aggravamento delle antiche, la cura dei malati e degli anziani nella loro fragilità e solitudine, l’attenzione alle concrete e fondamentali esigenze delle famiglie e all’enorme potenzialità di cui comunque sono capaci, vanno continuamente verificate alla luce del principio evangelico “guardate come si amano”.

Le previsioni di natura occupazionale, economica e sociale sono inquietanti e ci chiamano ad un impegno personale, comunitario e politico che renda ragione agli occhi di tutti della fede che condividiamo. In questo tempo, anche la consapevolezza e il rispetto delle regole per il bene e la salute di tutti, è un concreto modo di testimoniare la carità evangelica.

  • L’insieme delle prassi pastorali non può più prescindere dal mondo della comunicazione mediatica e particolarmente dei new media. L’utilizzo esploso in questi mesi, va ripensato in maniera più ordinata, organica e competente, consapevoli delle possibilità e dei rischi che contiene. In questo ambito il superamento del criterio del fai da te, e la crescita di una consapevolezza pastorale di questo mondo, sono assolutamente necessari e appartengono alle “res novae” che vogliamo interpretare con discernimento e non semplicemente utilizzare come strumento.
  • La collocazione dal “punto di vista” pastorale nelle periferie, tanto raccomandata da Papa Francesco, si traduce in una dinamica di rapporto tra piccole e grandi parrocchie, che trova, nelle Fraternità presbiterali, nelle Unità pastorali e, iuxta modum”, nelle Comunità ecclesiali territoriali, il luogo per attivare sinergie e collaborazioni che valorizzino le caratteristiche positive delle comunità più piccole, riconoscendole esemplari e generative per quelle più grandi.

A livello diocesano

  • La sospensione delle nomine e dei trasferimenti di parroci, curati e incaricati dei servizi diocesani, non è una semplice procrastinazione di un adempimento, ma una condizione significativa per rileggere le prassi pastorali alla luce dei criteri indicati, sia a livello parrocchiale, come a livello diocesano.

In questa prospettiva i soggetti della pastorale diocesana, espressione della responsabilità pastorale del Vescovo, sospendono le proposte, sussidiazioni e pratiche che non corrispondono a necessità ineludibili da parte delle parrocchie, assumendo per quest’anno l’impegno di una verifica del loro lavoro e insieme di una riformulazione alla luce delle esigenze e dei criteri che ci siamo proposti.

A questa sospensione, evidentemente relativa (non si tratta di un lockdown pastorale), si accompagna la dilazione di un anno, per le Parrocchie in stato di necessità, del versamento alla Diocesi di tassazioni e contribuzioni.

  • Il lavoro e il servizio degli organismi diocesani, insieme alla cura delle pratiche ordinarie illuminata dai criteri elencati, si svilupperà in queste quattro direzioni:
    • l’individuazione, la determinazione, l’accompagnamento e il sostegno ai percorsi di collaborazione tra parrocchie, adottando il punto di vista delle “periferie”;
    • l’alimentazione dei percorsi intrapresi dalle Fraternità presbiterali, particolarmente per quanto riguarda le dinamiche relazionali, formative e spirituali;
    • l’accompagnamento del cammino delle Comunità Ecclesiali Territoriali, particolarmente per quanto riguarda il lavoro dei Consigli pastorali, avendo come attenzioni privilegiate, insieme a quelle già individuate, la soggettività della famiglia e la fragilità rappresentata dalla malattia e dalla vecchiaia;
    • la collaborazione al Pellegrinaggio pastorale del Vescovo e alle finalità che si propone in ordine al concreto esercizio del ministero presbiterale e alla figura della Parrocchia fraterna, ospitale e prossima.

 

  • In questo orizzonte diocesano, è necessario condividere e sostenere la riflessione e le scelte relative al Seminario diocesano, alla sua organizzazione e soprattutto alla sua proposta formativa, accompagnata da una coscienza vocazionale sempre più avvertita e propositiva.

Conclusione

Sono consapevole dell’intensità della prova che abbiamo condiviso e della profondità delle conseguenze a tutti i livelli che stiamo sperimentando. Il cammino che ci attende è ancor più impegnativo, perché segnato da quel sentimento di sospensione che evocavo all’inizio della lettera. La ricchezza dolorosa e sorprendente di ciò che abbiamo vissuto, alimenti l’energia necessaria ad un percorso esigente. Il Signore risorto ci precede, il suo Spirito ci accompagna.

Spirito Santo, memoria di Dio, ravviva in noi il ricordo del dono ricevuto. Liberaci dalle paralisi dell’egoismo e accendi in noi il desiderio di servire, di fare del bene. Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi. Vieni, Spirito Santo: Tu che sei armonia, rendici costruttori di unità; Tu che sempre ti doni, dacci il coraggio di uscire da noi stessi, di amarci e aiutarci, per diventare un’unica famiglia. (Omelia di Papa Francesco nella Pentecoste 2020)