Lettera pastorale del Vescovo Francesco

Lettera Pastorale 2021 – 2022 del Vescovo Francesco

Servire la vita dove la vita accade 

LA FAMIGLIA

Care famiglie,

mi rivolgo a voi come ho fatto nella mia prima lettera “A casa nella Chiesa”: mi sembra giusto, in questo Anno della Famiglia che Papa Francesco ci invita a celebrare in occasione del quinto anniversario della sua Esortazione dal titolo “Amoris laetitia”, la “gioia dell’amore”.

Sono le parole che aprono il suo scritto e meritano di essere ricordate: “La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. … Malgrado i numerosi segni di crisi del matrimonio, il desiderio di famiglia resta vivo, in specie fra i giovani, e motiva la Chiesa. Come risposta a questa aspirazione l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia”.

L’annuncio del Vangelo alimenta la gioia dell’amore e della vita familiare ed è quello che ci proponiamo sempre, particolarmente quest’anno: è la missione della Chiesa tutta, cominciando dalle famiglie stesse, insieme ai presbiteri, ai diaconi, alle persone consacrate e a tutto il Popolo di Dio.

Nei giorni più dolorosi della pandemia, abbiamo riconosciuto e condiviso un criterio che non vogliamo diventi slogan: “servire la vita dove la vita accade”. Mi sembra provvidenziale poterlo indicare anche per quest’anno, consapevole che in famiglia la vita accade in modo unico e originale, misterioso e meraviglioso, umile e grandioso.

La comunità cristiana, in gran parte formata da famiglie, avverte la missione di servire la famiglia e la vita che vi accade, riconoscendo e alimentando la vita stessa di Gesù, Crocifisso e Risorto, che nella comunità familiare si manifesta e si incarna.

 

L’icona biblica

Ho meditato su quale Parola potesse nutrire questo proposito e ho avvertito che l’Inno alla carità, composto dall’apostolo Paolo, spesso proclamato nella celebrazione del matrimonio e scelto da Papa Francesco come testo fondamentale di Amoris laetitia, poteva rappresentare l’ispirazione più feconda per illuminare e nutrire il nostro servizio.

Dalla Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 13,1-13)

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.  E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. 

Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.  Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Sono incalcolabili i commenti a queste parole che attraversano i secoli e i cuori. Mi permetto di condividere con voi alcune risonanze, che ho raccolto ascoltando la lezione magistrale tenuta da don Patrizio Rota Scalabrini ai presbiteri riuniti in Assemblea.

L’inno alla carità rappresenta il culmine di una importante riflessione pastorale che l’apostolo Paolo consegna ai cristiani della comunità di Corinto, nell’antica Grecia, sui doni dello Spirito Santo. Dopo averli messi in evidenza e aver indicato alcuni criteri per riconoscerli, accoglierli e donarli per il bene di tutta la comunità, l’apostolo travolge gli argini delle considerazioni ponderate, per innalzare davanti ai cuori dei cristiani le parole delicate e potenti dell’inno alla carità.

Spesso, si preferisce sostituire alla parola carità, la parola amore, in nome della deformazione che la carità ha subito, identificandola alla fine con l’elemosina. Ma è proprio questo termine che rivela l’originalità della rivelazione di Dio che dilata il cuore e la meraviglia dell’amore. La carità infatti consiste nell’amore di Dio stesso che si fa dono nella persona di Gesù e ci viene comunicato per opera dello Spirito Santo.

L’amore, che è certamente passione, amicizia, intimità e condivisione di vita, ma anche scelta e quotidiana virtù, diventa dono sempre più grande e perenne, nella misura in cui accoglie l’amore di Dio, la carità.

E’ un dono che risponde a due desideri profondi. Innanzitutto il desiderio di stabilità, eternità, permanenza. Desideriamo costruire qualcosa che resti nel tempo, che non sia consumato, che vinca la precarietà, l’incertezza, l’inconsistenza … La carità rimane in eterno. Tutto passa: ciò che resta è ispirato dalla carità. La carità non avrà mai fine.

La carità corrisponde poi anche al desiderio di potere: la carità può tutto. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Si tratta di un potere che non schiaccia, ma libera: la carità libera l’amore.

Non facciamo fatica a intravedere in queste parole non solo la speranza di ogni famiglia, ma anche la via da percorrere perché la speranza possa assumere la forma della vita familiare. Potremo servire la vita della famiglia e in famiglia, se desideriamo e accogliamo il dono di Dio che è carità, che è Cristo stesso: la carità di Dio.

 

Alcuni criteri pastorali

Desidero ora riproporvi i criteri che avevo indicato nella Lettera dello scorso anno, tentando di applicarli alla vita familiare

IL VISSUTO DA NON SPRECARE: UN ENORME PATRIMONIO

Se ci siamo proposti di non sprecare i vissuti dolorosi e solidali sperimentati durante la pandemia, tanto più non vorremmo disperdere la ricchezza dei vissuti familiari: mentre piangiamo quello e soprattutto quelli che abbiamo perduto, riconosciamo il patrimonio accumulato in ciò che abbiamo donato e ricevuto in quei mesi.

La caratteristica di questo patrimonio non consiste negli eventi straordinari, luminosi o dolorosi, che contrassegnano la vita di quasi tutte le famiglie. Si tratta piuttosto di riconoscere la ricchezza della vita quotidiana, con i gesti, le parole, i sentimenti e le convinzioni che la caratterizzano e spesso si ripetono ogni giorno, senza che ce ne accorgiamo.

Mi piacerebbe che le nostre parrocchie, tutt’altro che estranee a questa dimensione quotidiana della vita, fossero sempre più capaci di riconoscere questo patrimonio familiare e soprattutto di riconoscervi la presenza e l’azione di Dio, del Signore Crocifisso e Risorto, del suo Spirito.

Questo sguardo illuminato e simpatico, alimenta la meraviglia, la riconoscenza, la speranza, spesso mescolate alla sofferenza, alla passione, alla preghiera, alla consapevolezza della necessità di darci una mano gli uni gli altri, non solo nei momenti eccezionali, ma nella realtà ordinaria.

NULLA POSSIAMO DARE PER SCONTATO

La pandemia ha rivelato non solo la nostra fragilità, ma continua ad alimentare una diffusa incertezza e precarietà. Se questi sentimenti rischiano di nutrire forme di depressione personale e sociale, di vitalismo incontrollato e a volte violento, di risentimento e rabbia, da cristiani vogliamo interpretare la fragilità come occasione propizia per rinnovare la consapevolezza del senso delle cose.

Anche in famiglia non possiamo dare nulla per scontato: proprio per questo non vogliamo rassegnarci alla fatalità e neppure assillarci nella ricerca di una sicurezza ossessiva. Si tratta piuttosto di alimentare il fuoco del significato e del valore della vita familiare, delle relazioni, delle fatiche e delle gioie.

La quotidianità rischia di diventare logorante se questo fuoco, che è essenzialmente l’amore, non viene custodito e continuamente curato. E’ altrettanto vero che la quotidianità familiare è esposta anche a cambiamenti improvvisi: pure questi rischiano di diventare sfibranti, se il “fuoco” non viene ravvivato.

Ho l’impressione che l’aver fatto della famiglia una questione privata, l’abbia molto indebolita. Una scelta che la famiglia può compiere, è quella di superare le tentazioni di chiusura e di ripiegamento e ricercare un’appartenenza più vasta, coltivando relazioni con altre famiglie e con i diversi mondi abitati: si tratta di passare dall’appartamento all’appartenenza comunitaria.

La comunità cristiana raccoglie il dono della vita familiare, che rende visibile e reale il mistero dell’amore di Dio, della comunione con Lui e con gli altri: contemporaneamente offre alla vita della famiglia i doni della Parola, dell’Eucaristia e dei Sacramenti, di una vita comunitaria all’insegna della gratuità e della carità, che sono assolutamente capaci di alimentare quel fuoco così necessario per essere “casa”.

SERVIRE LA VITA DOVE LA VITA ACCADE

Servire la vita in famiglia è fare del servizio uno dei criteri con cui si manifesta l’amore tra le persone che la formano.

Non si tratta soltanto di dare il proprio contributo alla vita di tutti, di organizzare le risposte ai bisogni semplici o impegnativi della famiglia, di contribuire con il proprio lavoro, di aiutarsi gli uni gli altri: si tratta di compiere tutto questo per un bene, una soddisfazione, una gioia, una speranza, che non sia solo nostra, ma cresca in noi nella misura in cui cresce per gli altri.

Servire la vita in famiglia significa gustare insieme delle gioie di ognuno e di tutti e condividere fatiche e sofferenze di ciascuno, nel momento in cui ne viene segnato. Servire la vita in famiglia è coltivare la riconoscenza per il servizio che ognuno offre, soprattutto quando assume i tratti più quotidiani e apparentemente modesti. Alla luce di questo criterio, desidero invitarvi a considerare una condizione che diventa sempre più diffusa: quella della vecchiaia. Si tratta di una età preziosa e nello stesso tempo delicata. La pandemia ha inesorabilmente e dolorosamente rivelato la sua fragilità, connaturata alla vita stessa.

La condizione delle persone anziane si è imposta ad una società caratterizzata da un invecchiamento crescente. Non mi soffermo sulle necessarie misure sociali da adottare, sulla pluralità di soggetti che sul territorio possono rappresentare una risposta a situazioni che si presentano in maniere molto diverse, ma vorrei condividere il grande rilievo che assume in una famiglia la cura delle persone anziane e insieme la ricchezza rappresentata dalla loro presenza.

Gli anziani non sono solo destinatari di attenzioni e di cura, non sono solo fonte di sostegno economico e di aiuto nel corrispondere ai bisogni dei figli, ma sono una presenza che alimenta la cultura e la pratica del dono.

La comunità cristiana rappresenta una visione, una storia, un impegno costituito sia dalla testimonianza degli anziani, sia dalla premura per loro. Spero che questa storia continui, contrassegnata in modo speciale dalla cura delle relazioni e particolarmente di quelle tra diverse generazioni.

Papa Francesco insiste sul rapporto fecondo tra giovani e anziani, ricordando come la cura delle radici nutra sogni e speranze. In modo particolare, alimentiamo questa sensibilità nelle comunità più grandi, perché nessuno venga lasciato solo.

La ricchezza dei modi in cui la vita viene servita “in” famiglia, si moltiplica nel momento in cui adottiamo il criterio di servire la vita “della” famiglia. Possiamo registrare qualche segnale in questa direzione da parte della società e delle istituzioni che la rappresentano.

Desidero manifestare apprezzamento per tutte le espressioni organizzate che promuovono il valore sociale della famiglia e in modo particolare quelle che riconoscono e propongono risposte a due autentiche emergenze: quelle relative alla natalità e all’educazione.

Insieme ai provvedimenti sociali, si tratta di sostenere le condizioni culturali, etiche e spirituali, affinché il mettere al mondo nuove creature e crescerle verso la maturità adulta, possa essere riconosciuto come un bene personale, familiare e sociale.

La contrazione delle nascite e l’emergenza educativa non sono solo l’esito di mancanza di mezzi, ma di un sentimento affaticato, indebolito, ripiegato: è sui sentimenti che è necessario convergere, perché possano sostenere i valori che rendono degna e bella la vita e giustificare gli sforzi necessari per trasformarli in realtà.

Il patrimonio spirituale della comunità cristiana, arricchisce il patrimonio sociale dei valori indispensabili ad alimentare non soltanto la speranza di vita, ma la speranza della vita. I gesti originali della comunità cristiana (l’accoglienza della Parola di Dio, l’Eucaristia e i Sacramenti, la fraternità tra coloro che la compongono, l’accoglienza di quelli che si affacciano, la vicinanza a tutti), non solo nutrono la fede, ma ne alimentano la forza generativa per la vita di ciascuno, di tutti, e certamente delle famiglie.

In questo orizzonte possiamo immaginare la comunità cristiana come spazio vitale per comunità di famiglie, che possono assumere le forme più diverse.

LA CURA DELLO STILE

Il proposito di servire la vita esige uno stile coerente. Si tratta di privilegiare la cura delle relazioni familiari e tra famiglie. Sono relazioni che hanno caratteristiche originali, capaci di nutrire una più ampia socialità.

La caratteristica della famiglia è quella di essere una comunità di vita e di amore. Curare le relazioni familiari, significa alimentare e testimoniare il riconoscimento del valore irriducibile di ogni persona, semplicemente per il fatto di essere persona.

Se questo criterio trova nella famiglia il “luogo” fondamentale, nello stesso tempo alimenta una cultura sociale che ne viene evidentemente arricchita, proprio per rendere più umana la società.  La cura delle relazioni prende forma nel riconoscimento dei “legami” non come limiti che mortificano la persona, ma come condizioni che ne esaltano la libertà e la fiducia.

La fatica e il deterioramento delle relazioni, fino a forme di inaccettabili abusi e violenze, non deve svuotare di significato e di valore la relazione impegnativa, il legame appunto, che rappresenta il vero antidoto alla dilagante e radicale solitudine. Proprio questi convincimenti, sostengono la scelta di perseguire, senza lasciarci demotivare dai fallimenti, il metodo del dialogo, tanto necessario alla vita sociale, ma ancor più e prima alla vita familiare.

La comunità cristiana sia umile, ma reale scuola di dialogo, dove la lezione della vita familiare e quella della vita di fede, che è essenzialmente dialogo, si incontrano in maniera virtuosa.

LA NECESSARIA CONVERSIONE 

Nella Lettera dello scorso anno, indicavo nella necessaria conversione uno dei criteri che scaturivano dall’esperienza della pandemia. La conversione che propongo alla famiglia e alla comunità cristiana è quella del riconoscimento.

Se non lo richiamiamo costantemente e soprattutto non lo pratichiamo, rischiamo di concepire e giudicare la vita della parrocchia soltanto in base alle risposte che registriamo alle proposte e alle iniziative che la comunità propone.

Nello stesso tempo, se la famiglia stessa non adotta questo criterio, rischia di concepirsi soltanto come frutto dei sentimenti, delle responsabilità e degli impegni personali, quasi che la fede sia una dimensione che si aggiunge alla vita familiare, una specie di antico soprammobile che abbellisce la casa.

La comunità cristiana per prima deve riconoscere e indicare la presenza del Risorto e l’azione dello Spirito nella vita di una famiglia e benedire il Signore per questo dono.

Lo sguardo della comunità illuminerà quello della stessa famiglia, perché possa vedere nell’infinità dei gesti coniugali e familiari, la presenza del Crocifisso Risorto e del suo Spirito.

Penso che a partire da questo sguardo, la famiglia potrà riconoscere il dono della comunità cristiana, superando le tentazioni di considerarla un’istituzione come altre e di assumere atteggiamenti strumentali nel rapporto con la parrocchia.

Proprio per questo, la conversione al criterio del riconoscimento, si accompagna alla conversione al criterio dell’incontro. Abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo all’insegna del necessario distanziamento: se questa è una delle misure volte a contenere il contagio, non può essere adottato come il fondamento della vita sociale, ecclesiale e familiare che si nutrono di incontro.

Famiglia e Chiesa si arricchiscono reciprocamente dell’esperienza dell’incontro personale e comunitario e insieme della ricchezza che ne scaturisce per il bene della famiglia stessa, della Chiesa e della società.

“In particolare, si vorrebbe promuovere quella dinamica che parte dal vissuto concreto delle nostre famiglie, così come sono (pregi, limiti, potenzialità, fragilità), per individuare già lì l’azione incarnata dello Spirito ed accompagnare questa azione attraverso un cammino di discernimento, elevazione e purificazione alla luce della Parola di Dio, dell’insegnamento della Chiesa e della testimonianza delle stesse famiglie.

Ciò deve portare a ingenerare o promuovere un ≪processo≫ che favorisca la presa di coscienza della ≪soggettività≫ delle famiglie nella vita della comunità cristiana, così da infondervi quello stile di amore, originato da Dio attraverso il sacramento del matrimonio e diffuso in ogni relazione umana ed ecclesiale” (Zanetti don Eugenio).

Vi è una terza modalità della necessaria conversione: quella dell’apprezzamento e della promozione della soggettività della famiglia a livello sociale ed ecclesiale. L’individualismo diffuso e radicale emargina la famiglia dai processi sociali, economici e culturali, per poi farvi ricorso nei momenti di emergenza come è avvenuto anche in questa pandemia. Sono le famiglie stesse che debbono rappresentarsi come fondamento della vita sociale e lo possono fare nella misura in cui si uniscono tra loro. Quante associazioni familiari sono sorte per rispondere a bisogni specifici: è necessario che non avvenga soltanto per questa ragione, ma per quella più ampia, rappresentata dalla vita di una società che non può essere concepita come somma di individui, perché inevitabilmente diventerà una somma di numeri.

La comunità cristiana deve favorire queste forme e riconoscere la soggettività delle famiglie come una ricchezza per la stessa vita cristiana. La famiglia vive di una sua propria ritualità fatta di gesti ricorrenti, di feste, di simboli, di segni e di abitudini, di discorsi e di giudizi, di ricordi e tradizioni, oltre che di concrete scelte di vita e di comportamenti che le esprimono.

La comunità cristiana può essere propositiva, capace di suggerire gesti, segni e parole spesso dimenticati, che da un verso alimentano di significati ispirati al Vangelo la vita della famiglia e, nello stesso tempo, creano una condivisione profonda tra vita comunitaria e vita familiare.

PREGHIERA E CARITÀ

Non posso, infine, dimenticare la relazione tra preghiera e carità nella famiglia e nella comunità. Nel tempo della pandemia, la preghiera in molte famiglie è fiorita non dalla paura, ma da una più profonda consapevolezza del dono dell’amore reciproco e della fede che lo nutre. La preghiera è pane dell’amore in famiglia e l’amore sereno e sofferto è il companatico necessario perché la preghiera non diventi insignificante e inutile per la vita di coloro che formano una famiglia.

Proprio la declinazione di preghiera e carità, alimenta una vita familiare non ripiegata su di sé, e quindi esposta ad una debolezza mortale, ma disegna una fisionomia di famiglia che, nella relazione con altre famiglie, esprime la capacità di generare speranza per la comunità cristiana, per la società, per chi rimane solo ed è abbandonato. La comunità cristiana vive dei gesti di amore compiuti nelle famiglie e dalle famiglie; si arricchisce della preghiera familiare e nello stesso tempo condivide con le famiglie la necessità della preghiera e la bellezza di una vita contrassegnata dalla carità.

 

Le proposte pastorali

Affido alcune proposte alla Diocesi nel suo insieme, alle parrocchie, ai gruppi ecclesiali e alle famiglie affinché cresca uno stile di comunità fraterna, ospitale, prossima.

L’Ufficio Famiglia, ricco di competenze e di disponibilità, è particolarmente impegnato in quest’anno dedicato alla famiglia, nel quinto anniversario della Lettera del Papa “Amoris laetitia”. Invito sacerdoti, consacrati e laici a far riferimento direttamente o attraverso il web alle proposte dell’Ufficio, unificate dalla bella immagine: “Giungere al cuore”. Sarà lo stesso Ufficio che individuerà e proporrà le iniziative migliori in occasione dell’Incontro mondiale delle famiglie che si terrà a Roma dal 22 al 26 giugno 2022 e che il Santo Padre desidera venga vissuto soprattutto a livello locale.

La rete dei Consultori diocesani, ben collaudata, solida, e distribuita sul territorio, continui e accresca il suo servizio, particolarmente nell’ambito della formazione, dell’educazione e della cura delle relazioni coniugali e generazionali, con particolare attenzione a quelle più delicate e sofferte.

Le Comunità Ecclesiali Territoriali, sia che abbiano privilegiato le Terre esistenziali della famiglia, sia che abbiano privilegiato altri ambiti di vita, connotino la loro attività attorno a questa scelta pastorale.

A livello parrocchiale, insieme alle tante proposte che vedono la collaborazione tra comunità e famiglia, propongo di rinnovare la consapevolezza e il sostegno alle tante scuole dell’infanzia che fanno riferimento alle nostre parrocchie, con la consapevolezza che si tratta di preziose opportunità per stabilire relazioni significative, soprattutto con le giovani famiglie e con i nonni.

A livello familiare si alimenti la consapevolezza della presenza e dell’azione del Signore nella vita di ogni giorno e nelle relazioni che costituiscono la famiglia, con particolare attenzione agli anziani e alle persone che soffrono della loro fragilità.

Non manchi la riscoperta della preghiera semplice e condivisa, a volte a partire dalla testimonianza non ostentata ma convinta della preghiera individuale.

Suggerisco che le famiglie non facciano mancare nella loro casa un’immagine religiosa e soprattutto il testo del Vangelo o, ancor meglio, della Bibbia.

Invito le famiglie, con il sostegno della comunità cristiana, a promuovere forme di aggregazione che le rappresentino e le rafforzino come soggetti della vita sociale, economica, culturale ed ecclesiale.

Conclusioni

Ho iniziato il mio Pellegrinaggio pastorale e benedico il Signore e tutte le Parrocchie visitate, insieme ai loro presbiteri, per la ricchezza degli incontri. Riprenderà nel mese di ottobre e sarò felice di potermi incontrare con le famiglie nelle semplici occasioni che ho previsto per questo percorso.

La Chiesa italiana e quella universale stanno raccogliendo l’invito pressante del Santo Padre per assumere un volto sempre più sinodale. La parola “sinodo” significa camminare insieme. Siamo in attesa delle indicazioni che ci verranno per assumere sempre più questa fisionomia. Certamente la vita della famiglia diventa scuola autorevole, perché la Chiesa diventi sempre più una comunità sinodale.

Desidero concludere con una citazione che, pur non essendo poesia in senso stretto, lo è nella sua profondità evocativa. Si tratta delle parole struggenti che il grande poeta Eugenio Montale rivolge alla moglie nel momento della sua morte.

Dicono l’inesauribile fascino della relazione d’amore di un uomo e di una donna e della fecondità generativa che questa relazione possiede e diventa famiglia.

 

«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale 

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. 

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. 

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, 

le prenotazioni, le trappole, gli scorni 

di chi crede che la realtà sia quella che si vede. 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio 

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. 

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due, 

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue».

 

+Francesco, vescovo

26 agosto 2021, solennità di Sant’Alessandro

 

L’icona

L’icona scelta è conosciuta come la “Trinità di Rublev”.

I tre “angeli” sono seduti attorno alla mensa di casa di Abramo e Sara, che sullo sfondo è rappresentata come casa accogliente, come roccia di valori, come germoglio generativo. È nell’accoglienza familiare di Dio in casa, che Abramo e Sara hanno in dono la buona notizia, il vangelo della nascita di un figlio.

Mi piace, in occasione di questa lettera, condividere un dettaglio molto particolare. Seguendo la linea all’interno delle figure attorno al tavolo, si coglie la forma di un calice: è l’orizzonte della comunione d’amore di Dio, di cui siamo fatti a immagine e somiglianza. Quel calice ci invita a vivere la vita dove la vita accade, anche e soprattutto quando la Vita è quella stessa di Dio.

Il calice non c’è di fatto, ma si compone aprendo uno spazio, offrendo cioè a ciascuno il proprio posto per sedersi da figli al tavolo della casa della famiglia di Dio. Così è la prospettiva della speranza della nostra fede e del nostro amare, così è quanto professiamo nella celebrazione eucaristica comunitaria, così è lo stile delle nostre famiglie come “chiese domestiche”.

La soglia della casa è scuola e palestra di relazione, perché è il luogo dell’incontro e della fedeltà che, come pane quotidiano “fa sacro” ogni gesto, anche quello più scontato, anche quello più pesante. E’ la qualità di quell’amore che rende calice i nostri legami, che rende divino il nostro sederci a tavola in famiglia, riempiendo di Dio la vita, proprio là dove la vita accade.